Un locale, chiamato The Place; un uomo misterioso, sempre seduto a un tavolo sul quale è poggiata una grande agenda di pelle nera; tanti personaggi in cerca di qualcosa o di qualcuno. Varie storie che si intrecciano e una sola domanda: fino a dove ci si può spingere per ottenere quello che si vuole?

Tocca ancora a Paolo Genovese tenere in piedi le sorti del traballante cinema italiano, stavolta con una mossa eufemisticamente poco originale (il film è “pesantemente” ispirato ad una serie tv americana di qualche anno fa, intitolata The Booth at the End, che racconta le vicende di un gruppo di sconosciuti che eseguono gli ordini impartiti da un uomo senza nome che esaudisce in cambio i loro desideri) ma che, pur declinata in salsa nostrana, risulta efficace e convincente.

La dimensione privata piace a Genovese, che passa dalla tavola imbandita a cui si sedevano i protagonisti de Perfetti Sconosciuti a quella di un locale che vede confinato nel posto meno in vista un ineffabile Claudio Mastandrea, intento ad ascoltare i desideri più o meno intimi di persone comuni (c’è la ragazza già carina che vuole diventare più bella, una vecchia signora che vuole far guarire il marito da una malattia e un padre che vuole riabbracciare il proprio figlio) e a chiedere loro di fare qualcosa in cambio dell’avveramento del desiderio richiesto.

Una formula semplice, essenziale, che Genovese fa propria riuscendo a caratterizzare splendidamente l’apparentemente anonimo Mastandrea, che mano a mano che il film procede assume sempre di più le dimensioni di un diavolo, di un demiurgo, di un deus ex machina (in)fallibile e a rendere appassionanti quasi tutte le storie raccontate dai tanti personaggi.

Un po’ Pirandello, un po’ Ai confini della Realtà, The Place si chiude con un bel twist e, pur non riuscendo mai ad essere un film memorabile riesce comunque ad intrattenere o quanto meno incuriosire. In The Place di cinematografico c’è ben poco, anzi, è un film, come il precedente, che guarda più al teatro e alla letteratura, due arti che possono trarre forza solo dall’uso della Parola, riuscendo a trasformare la staticità in attesa e l’attesa in mistero.

Certo ci sono passaggi a vuoto, ridondanze, non tutti i subplot sono interessanti così come non tutto il cast riesce ad eseguire alla perfezione il compito richiesto, ma almeno, rispetto alla media dei film nostrani, troviamo tracce di idee, originalità, voglia di rischiare, mettersi in gioco e, perchè no, anche la capacità di provare a far riflettere il pubblico, invece di stordirlo con chiacchiere a vanvera o citazionismo spinto.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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